Nemmeno il tempo di consumare tutti i torroncini rimasti nella dispensa ed ecco che arriva la Pasqua, con i suoi riti antichi e profondamente ancorati alla tradizione cristiana. La Chiesa da sempre si forza di farci capire che questa festa è molto più importante del Natale che è sicuramente appare più suggestivo, forse avvantaggiato dalle luci colorate e dal conseguente smodato consumismo. Comunque, per chi crede o meno, questo può essere un momento importante in cui fermarsi a riflettere, per ritrovare un po’ se stessi oltre che i nostri cari. E per cercare “l’essenziale”, che troppo spesso ci sfugge, presi come siamo a rincorrere illusioni.
La più consueta di esse è immaginare “migliore” tutto ciò che ci è distante, idealmente posto su un piedistallo, illuminato dai fari dell’arrivismo più sfrenato. Naturale e comprensibile l’attitudine dell’uomo a migliorarsi, a provare nuove conquiste, per raggiungere il benessere o status (solo mentali) che lo facciano emergere, dandogli l’illusione di essere migliori degli altri. E allora si inseguono per una vita obiettivi impossibili, poste dalla mente “davanti” o “in alto”, ad una distanza che sembra irrisoria ma che, invece, si rivela quasi sempre incolmabile, e non soltanto fisicamente. Storie di ordinarie utopie quotidiane.
“Io” e poi “gli altri”, nasce così l’egoismo, protagonista assoluto del nostro tempo, una pandemia cronica oramai. Eppure, basterebbe fermarsi un attimo e provare a riflettere. Ragionare, restando virtualmente immobili, laddove le dinamiche temporali ci hanno collocato in quel preciso istante. Solo così possiamo fare una panoramica, voltarci intorno e guardare, capire, fare chiarezza in quel complesso “io” che, inevitabilmente confuso, viene sballottato dal rabbioso mare magnum che è la vita di tutti i giorni. La Vita, nonostante tutto, è molto più semplice di come noi, invece, la consideriamo, forse per paura di accettarla così com’è. La nostra esistenza potrebbe essere vissuta a partire dalle cose semplici, di bisogni talmente banali e naturali che basterebbe davvero poco a garantirci serenità e dignità di Uomini, annullando così ogni forma di inevitabile solitudine ed egoismo. Ogni tanto bisognerebbe voltarsi indietro, oppure guardare “in basso”, per scoprire un mondo diverso da quello che viviamo. Diverso ma sicuramente migliore, sotto tutti i punti di vista. Ciò che noi immaginiamo possa essere la vita ideale, non soltanto materialmente, il più delle volte è soltanto un miraggio, un'illusione anche pericolosa, fautrice di profonde delusioni, di depressione.
Invece, basta girarsi, o guardare “giù”, per capire, per ritrovare il sorriso, gli stimoli, la voglia di fare, dare. Un mondo che magari ha meno luci e sfarzo, dove c’è poco o nulla, in senso lato. Ma dal quale io, noi, possiamo trarne una ricchezza immensa, inestimabile. Tutti i soldi del mondo sono un’inezia rispetto al tesoro a cui mi riferisco. Guardo in giù, non solo idealmente, e mi rendo conto che c’è chi vive senza ultimo modello di berlina, che non indossa jeans griffati o scarpe da trecento euro, che non conosce neppure cosa sia uno smartphone. Persone che non hanno nulla di nulla, che non posseggono altro che se stessi e l’amore, la comprensione, l’empatia di tanti altri individui che versano nelle stesse condizioni. E solo da costoro possono aspettarsi umanità, calore, considerazione. Poveri, li definiamo così, anche se i poveri veri siamo noi di sentimenti e umanità. Avete mai provato a stringere la mano di un povero, e guardarlo negli occhi? Fatelo, vi farà bene, e così potrete capire quanto invece loro siano “ricchi” rispetto a noi. Di cosa? Dignità e valori profondi che noi abbiamo sperperato o addirittura mai posseduto. Avvicinate, se potete, un povero o “barbone”: qualcuno li chiama così con tono fin troppo dispregiativo. Farà bene soprattutto a lui/lei, più di una formale elemosina di pochi e “freddi” spiccioli, inanimati privi di ogni significato. Un povero cristo (povero, o barbone, qual'è la differenza visto che la sofferenza è la stessa?) che io ho conosciuto e che spesso s’aggirava nei pressi della stazione ferroviaria di Benevento, una mattina d’inverno di qualche anno fa mi disse, a proposito del clima particolarmente rigido: “non c’è notte più fredda di quella che cala dopo una giornata durante la quale nessuno mi ha degnato almeno di uno sguardo”. “Sai, -continuò- è in quei momenti che mi sento l’ultimo tra gli ultimi. E in quel momento non c’è tetto o coperta che basti. Un pezzo di pane lo trovo sempre, un sorriso o qualche parola di incoraggiamento quasi mai”. Parole prive di rabbia, o livore, così come per ogni nostro breve dialogo, espresse con una educata e disarmante rassegnazione. E ogni volta una stilettata dolorosa (ma paradossalmente benefica) alla mia coscienza.
Quante volte l’ho cercato per dargli qualcosa o semplicemente per accertarmi del suo stato. Chissà, forse il mio era anche un modo per lavare la coscienza di benestante (?). O forse, e credo che sia così, perché in quel momento, nell’istante esatto in cui avevo un contatto con quel poveraccio avvolto dagli stracci io mi sentivo bene, mi si riempiva il cuore. Quel suo modo di sorridermi, quello sguardo ricolmo di gratitudine pur se intinto nella disperazione, mi trasmetteva una serenità e un sentimento di pace infinita che difficilmente ho provato. Era un toccasana per la mia tristezza basale, un calmante unico per ogni tipo di ansia. Non l’ho più visto, nel silenzio e nella composta discrezione è sparito, probabilmente in giro (spero) in qualche altra città. “Io”, “gli altri”. Ma, pensateci, inevitabilmente anche noi siamo gli “altri”… E non ci rendiamo conto che in questo bailamme materialistico smarriamo l’essenziale. Perdiamo il contatto con la realtà inseguendo il niente quando invece abbiamo già tutto a portata di mano. Da Carmine, il "barbone" si chiama (o chiamava?) così, ho imparato tanto e probabilmente lui nemmeno sa quanto io gli sia grato per questo.
Bisogna scegliere: fare finta che sia tutto normale, nascondersi dietro le “convenzioni” e il formalismo dettato dalle circostanze. Oppure, fare un piccolissimo gesto d'amore verso il prossimo e vedrete, sarà così “vera Pasqua”, quella del cuore. E non servono assegni con tanti zeri o gesti eclatanti. Basterebbe un normalissimo e semplice atto materiale (e di coscienza) come, ad esempio, portare qualcosa alla Caritas Diocesana della nostra città. Ovviamente non per lavarsi la coscienza, ma per dimostrare, a noi stessi in primis, che possiamo davvero essere migliori, tendendo la mano a chi è rimasto indietro. Per le illusioni e tutto il resto avremo tempo…
Può sembrare ipocrisia, il consueto buonismo indotto dal clima festaiolo. Ma non lo è. Perchè non servono "conversioni" e neppure grandi sacrifici o rinunce per riuscire a cambiare se stessi e a fare del bene agli altri. Restando ciò che più si desidera essere, continundo a vivere la propria beata normalità, possiamo in aggiunta regalare un sorriso o semplicemente un paio di scarpe senza buchi a chi non ne ha. Capito?
Contravvenendo ai miei propositi sono ritornato a scrivere ed ho "rubato" qualche minuto alla nostra passione più grande, a questo calcio non sempre "trasparente" che ci fa comunque sognare, disperare, gioire, sentirci orgogliosi. Ma credo che stavolta voi siate tutti d'accordo con me o comunque, mi perdonerete la divagazione e per questo vi ringrazio. Adesso posso nuovamente ritornare al silenzio, sperando di avervi "lasciato" qualcosa.
Auguri sinceri a tutti Voi e siate sereni - almeno provateci - in queste ore di festa. Auguri allo staff tecnico del Benevento Calcio, ai calciatori, alla Dirigenza. Buona Pasqua 2015!
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