Tra qualche giorno avrà il via ufficiale la scuola calcio voluta dalla società cara al Presidente Oreste Vigorito. Il Benevento avrà per la prima volta una scuola aperta a tutti i bambini che vorranno cimentarsi con la sfera di cuoio. Baby-giallorossi, chissà quanti di loro un giorno diventeranno davvero calciatori. Per Diego Palermo, coadiuvato da Giampiero Clemente non importa. Fondamentale, invece, sarà forgiare -possibilmente- futuri uomini, pronti a confrontarsi con le regole della vita e il rispetto del prossimo. A condividere con gli altri uno sport, certo, ma anche tanto sano divertmento. Per tutti loro sarà una fortuna, un privilegio: imparare regole di convivenza civile e calcio, con la maglia della squadra del cuore!

La realtà quotidiana ci insegna che tantissimi altri bambini, invece, la fortuna di poter far parte di una squadra non l'hanno mai avuta. Tanti, poi, quelli che non hanno avuto nemmeno nemmeno la fortuna di viverli gli anni migliori, la spensieratezza, il periodo dei sogni di gloria...

A proposito di questo, noi abbiamo voluto regalarvi un capitolo del libro "Ogni santa Domenica", pubblicato a dicembre 2013 dal nostro Marcello Mulè. Uno spaccato biografico di vita vissuta in parallelo con la sua fede giallorossa. Un cammino difficile e questo capitolo è significativo proprio perchè dedicato a bambini meno fortunati. E' una parentesi dolorosa nel suo racconto suggestivo dell'epopea giallorossa, quella che tutti noi abbiamo contribuito a realizzare con mattoni di passione. Un modo particolare di raccontare l'amore per il Benevento e per questi colori, riferito all'anno 1986.

Leggetelo con attenzione e magari provate a farlo con i vostri figli, o nipoti, per fare poi insieme una piccola riflessione sulla fortuna di esserci, a prescindere...

Buona lettura!

(Cap. 11) - Aisha e Tawfik

[...] Il Louis Pradel di Brôn aveva anche un reparto di cardiochirurgia pediatrica. Inutile descriverlo, credo che sia immaginabile cosa contenesse... Io scoprii che era proprio al piano sotto a quello dove era ricoverato mio padre. Quarto livello, colori e disegni all’ingresso, lo sfondo “Disney” ad accogliere i tanti visitatori. Girovagando per la struttura in attesa della mia ora di visita, mi resi conto che il mondo non era così clemente, nemmeno con i bambini.
In Francia, ricordo, convergevano malati da tutte le nazioni francofone dell’area mediterranea: Marocco, Algeria, Tunisia, oltre che a quelli di tutta Europa, visto che quel paese, all’epoca, era all’avanguardia in campo medico, soprattutto in ambito cardiochirurgico.
Alla buvette dell’ospedale conobbi un infermiere di quel reparto, anche lui di origini italiane. Leonardo Marraffa, originario di Martinafranca. Un omaccione rubicondo, dai tratti somatici profondamente mediterranei, dai modi garbati e sempre cordiali. Seppe attraverso quanto gli raccontai della mia vicenda familiare e, nei giorni seguenti, essendo nata una certa confidenza, lui per me divenne un punto di riferimento importante. Una sorta di luce nella notte, davvero.
Un pomeriggio gli chiesi com’era possibile rimanere gelidamente professionali, non cedendo alle emozioni, avendo da curare (e accudire) bambini a volte piccolissimi.
Il suo consueto sorriso si spense. Mi raccontò grossomodo del lavoro, le tante problematiche e poi mi accennò qualcosa sui “figli di nessuno”.
I figli di nessuno, bambini soli trasportati a curarsi in Francia, senza i genitori, perché stranamente a loro non veniva concesso il visto d’ingresso. Non so il perché. Questo aggiunto al fatto che erano figli del Maghreb, ai margini del terzo mondo, per la maggior parte popoli di una povertà assoluta.
Ovviamente il mio sgomento fu palese, sincero, e lui, a sorpresa, mi chiese «Vuoi vedere i miei angeli?»
«Si», cosa mai avrei potuto rispondere?
Il consueto (per quel luogo) camice sterile azzurro pallido, la cuffietta, le ciabattine in tessuto non tessuto da perfetto visitatore, a darmi un aspetto da alieno, e fu quel pomeriggio che conobbi davvero due angeli: Tawfik e Aisha.
Fratelli gemelli, maschio e femmina, cinque anni, algerini. Gemelli monozigoti, talmente somiglianti da essere purtroppo uguali anche nella grave malformazione cardiaca congenita che li aveva fatti arrivare fin lì. Erano stati operati a poche ore uno dall’altra, ultima speranza di prolungargli la vita in barba ad un destino già segnato.
Due fagotti appena visibili, nei letti troppo grandi per loro. Intubati, cateterizzati, attaccati ad un monitor su cui, con un riverbero arancione, si visualizzavano i grafici del battito cardiaco e di altre funzioni vitali.
Nella stanza un silenzio irreale, solo il ronzio delle macchine che quasi copriva i rumori ambientali provenienti dall’esterno e un lieve ma percettibile “tic tic”, continuo.
Non riuscivo a capire cosa fosse quel rumore e da dove venisse.
“Tic tic”, e il respiro corto e ritmato dei bambini, lo sguardo spaventato e perso nel nulla davanti a loro, nonostante un piccolo televisore, posto in alto su di una mensola, trasmettesse dei cartoni animati, senza audio.
Volti tristi, sofferenti, profondamente disperati di quei bimbi con il cuore malato e troppi aghi nelle braccia esili.
Loro nel letto ma sicuramente con il pensiero perso nei ricordi più belli. Quelli con le rassicuranti e dolci carezze della loro mamma lontana, di una casa povera ma accogliente, di qualche barattolo e di una palla sgonfia con cui giocare nella polvere. La loro vita, ai margini del mondo, ma ugualmente bella proprio perché “vita”.
Io stavo lì e li guardavo, senza muovermi, non volevo spaventarli, non avrei voluto infastidirli. E non sapevo neppure in che modo avrei potuto interagire, visto che io, oltre a non conoscere il francese ignoravo assolutamente l’arabo.
Entrambi nemmeno mi degnavano di uno sguardo, mi resi conto che il loro sguardo era rivolto alle tre grandi finestre, alla sinistra dei letti, da cui entrava il sole. Luce scarsa e zero tepore, io poi immaginavo a quanto loro erano abituati a vedere nel loro Paese, la luce abbacinante di un sole già “impresso” nel loro stesso dna.  Però, nella fredda e umida Lione, quel pallido disco luminoso era già tanto!
Pochi minuti, poi fuori, era il protocollo, le regole.
Il giorno dopo raccontai l’esperienza fatta a mio padre e lui, teneramente, mi licenziò con grosso anticipo chiedendomi di ritornare giù dai bimbi e di portargli qualcosa: «Tanto io non scappo» mi disse, quasi accompagnandomi alla porta. E già, non saresti scappato, purtroppo.
Io non ero affatto “impreparato”, nella profonda tristezza indotta dalla scena del pomeriggio precedente avevo già provveduto. Infatti, avevo acquistato in un negozietto posto proprio di fronte all’ingresso del nosocomio, dove c’era la fermata del mio autobus, un banalissimo modello di camion dei pompieri e una bambolina “Fiammiferino”, ricordo ancora il nome.
Pochi i franchi spesi, ma la certezza di trasportare, nel sacchetto di carta, un briciolo di felicità.
Rieccomi lì, “tic tic”, nemmeno la seconda volta loro due mi degnarono di uno sguardo. Nulla. Zitti, immobili, il televisore sempre acceso a trasmettere cartoni senza audio e poi il solito ronzio dei monitor di controllo.
La bustina sterile fece rumore quando io l’aprii. L’infermiera di colore, all’ingresso, aveva voluto levare i giochi dagli involucri, perché ovviamente questi erano polverosi e potenzialmente carichi di germi.
Misi il camioncino rosso con la scala accanto alla mano di Tawfik; la bambolina invece l’appoggiai sul cuscino accanto ai capelli crespi di Aisha. Ma quanti ne aveva? I due bimbi neppure si mossero.
Mio Dio, avrei voluto riempirli di baci, magari tenerli in braccio per un po’ ma non si poteva. I tubi, il protocollo… Ma lo “strappargli un sorriso” non c’era in quel maledetto protocollo? Mah!
Con il batticuore riuscii a fare una leggerissima carezza sulla testa di Aisha e poi immediatamente a Tawfik che invece aveva i capelli rasati ma anche molto radi, troppo considerata l’età.
Poi via e, uscendo, dissi «ciao bimbi», solo quello mi uscii dalla gola, e lo dissi con tono “strozzato”. Leonardo Marraffa da Martinafranca mi guardava e sembrava abbastanza divertito dalla mia impacciata legnosità, ma leggevo nel suo sguardo un certo compiacimento.
Il giorno successivo, per mia scelta, non andai a trovarli.
Venne poi la domenica e, dopo il consueto vis a vis con il mio amato genitore, scappai giù al quarto piano. Non vedevo l’ora di ritornare in quella stanza.
Entrai con addoso un’emozione da togliere il respiro e, stavolta, quegli occhi, incredibilmente all’unisono, si voltarono a guardarmi. Occhi neri, di una bellezza indescrivibile, disarmanti, incorniciati da visi scarni, emaciati, sofferenti.
“Bambini nel dolore, è un errore del Creatore”, solo questo riuscivo a pensare.
Io mi spostavo lentamente nella stanza e loro mi seguivano con lo sguardo, ma senza muoversi, mentre intorno a loro un’infermiera sistemava un tavolino con i vassoi della merenda.
Che bello, i giocattoli da me portati erano stretti nelle manine!
Un piccolo prodigio, forse un segnale di quel Creatore a volte fallibile, ed ecco un lieve accenno di sorriso illuminarsi sul volto di Tawfik. Bastò questo per farmi uscire due lacrime gigantesche che caddero pesantemente bagnando e macchiando il copriletto verde chiaro.
Allungai la mano, sollevai quella che reggeva il camioncino e la baciai sul dorso. Il sorriso di Tawfik si fece appena più largo e una gioia incredibile mi prese, in quel momento mi sentivo l’uomo più felice del mondo.
Poi mi volsi ad Aisha, lei meno incline a relazionarsi con me, goffo sconosciuto, ma i suoi occhi brillavano e comunicavano… a lei, vinto il mio stupido impaccio, le baciai la fronte.
Difficile da spiegare, ma quell’emozione così densa non l’ho mai più provata.

“Tic tic”, finalmente lo avevo capito: non era un invisibile orologio ma il rumore delle valvole meccaniche che avevano impiantato nel petto dei miei due piccoli “amici”. Capito non proprio, in verità me lo aveva spiegato il dottor Maxime Thibault, ovvero colui che aveva operato i due bimbi.
Molto giovane, era di Belfort, capelli rossi e vezzosi occhiali bianchi alla “Elton John”, mi era stato presentato dal mio amico infermiere.
Tifoso del mitico Bayern Mönchengladbach per via delle sue origini teutoniche, nei pochi minuti che mi concedeva era avidissimo di sapere del calcio italiano, della “Giuventus”, di “Le Roi Platinì”.
Io invece gli parlavo (eufemismo) del mio Benevento. Di base ridevamo, non so se per la reciproca incomprensione linguistica o perché io citassi una sconosciuta squadra di terza serie! Bah, ho sempre sperato che non mi prendesse in giro, ma dubito tutt’ora.

Per due settimane, ogni pomeriggio dieci minuti con loro, i due angeli che non miglioravano.
“Condizioni stazionarie” come diceva Thibault accentando pesantemente “le finali” ma era chiaro che i bimbi non stessero affatto bene, erano vivi grazie all’ausilio delle macchine, altro che stazionarie. E io, vigliaccamente, non volevo “vedere” oltre questo, credevo, o speravo.
Poi, purtroppo, successe l’irreparabile per mio padre. Nella concitazione dei momenti, tra dolore, carte, burocrazia, umiliazione, per tre giorni non potei fare la “visita quotidiana” ai miei amichetti.
Il pomeriggio prima di ripartire per l’Italia, una volta sbrigata ogni formalità burocratica con il Consolato Italiano, riuscii a farmi accompagnare all’ospedale. Salii su di corsa, quarto piano, ambiente disneyano, percorsi il lungo corridoio che conduceva alle stanze. Leonardo Marraffa non c’era, mi accolse l’infermiera che normalmente provvedeva ai bambini.
Anche lei aveva imparato a riconoscermi, dopo tanti giorni. Non mi guardò negli occhi, disse qualcosa d’incomprensibile per me e portò le sua mani al volto, si girò e andò via. Non c’era bisogno di traduttori stavolta, io capii.
Una lama infuocata mi stava attraversando il cuore e la mente.
Tawfik non c’era più, era spirato la mattina precedente. C’era solo Aisha ed era stata trasportata in rianimazione, giù al pian terreno, accanto al blocco operatorio. Avrei potuta vederla, c’era una vetrata dalla quale avevo seguito anche gli ultimi istanti di mio padre, ma non volli farlo.
Io non riuscii a pronunciare più una sola parola, scappai letteralmente via e piansi dall’ospedale fino alla pensione di monsieur Mercuri, dove m’aspettava mia madre.
Tornai a piedi, un tragitto che speravo non finisse mai in cui diedi sfogo a tutto il mio dolore, al senso di sconfitta e a quelli di colpa per non aver potuto salutare i miei due angeli algerini.
Urlai al cielo e al mondo tutta la mia rabbia, imprecando contro chi non aveva voluto che quell’angelo restasse sulla Terra, portandolo via insieme a mio padre.
Litigare con Dio mi sembrò quasi doveroso.
Di Aisha non seppi più nulla. Ho solo una certezza, più solida che mai: entrambi, sono sempre vivi nel ricordo e mi accompagneranno per tutta la vita, al caldo, nel mio cuore.
Con Dio non ho più fatto pace. Lo farò solo quando mi spiegherà in maniera esaustiva perché un bambino o qualsiasi essere umano deve soffrire così.
E comunque, dovrà cercarmi Lui.

 

 

Sezione: In primo piano / Data: Dom 07 settembre 2014 alle 14:00
Autore: Redazione TuttoBenevento
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