A volte è necessario fermarsi a riflettere, ad osservare ciò che abbiamo intorno. Non sempre lo facciamo, anzi, io credo che presi come siamo dalla quotidianità, capita spesso che neppure ci rendiamo conto di quanto ci circonda. Perdiamo il contatto con tutto ciò che abbiamo la fortuna di avere, concretamente. La routine mentale è fatta solo di lavoro, bollette, il mutuo, la salute, la costante se non concreta paura di non farcela ad arrivare alla fine del mese. Figuriamoci poi per quelli - tanti purtroppo - che il mese neppure lo iniziano, ahimè.

Il rifugio, infantile ma sicuro, per molti di noi è il calcio, due ore alla settimana di stordimento ed emozioni, una droga tollerata e molto diffusa, a costo bassissimo. Il calcio, il Benevento, ed ecco servito l'oppio dei popoli, come fu definita la religione da Karl Marx (plagiando Socrate? Bah!). Sembrerà banale, qualcuno sicuramente storcerà il muso o m'accuserà di essere povero in spirito... Ma è una verità, che piaccia o meno.

La cerimonia d'intitolazione dell'antistadio al compianto Carmelo Imbriani m'è servita anche a fermarmi e riflettere. Oltre alla doverosa e sentita partecipazione, ho avuto modo di sedermi, virtualmente, e quindi ho rivolto lo sguardo intorno a me. Volutamente mi sono defilato, anche perché la platea di volti noti e importanti era affollata ed io ero talmente fuori luogo che davvero mi sarebbe sembrato un affronto rimanere in "prima linea". Mi sentivo un corpo estraneo, ecco. Dalle retrovie ho potuto osservare, analizzare per quanto possibile il momento, quello di ognuno di noi presenti lì.

Volti, sguardi, abiti da cerimonia o semplici t-shirt,  divise cariche di alamari, abiti talari, doppio petto in fresco-lana rigorosamente scuri, tailleur eleganti con tacchi, ma la maggior parte di quelli che ho osservato erano, come me, corpi estranei. Cosa c'entravano con un campo di calcio, con ciò che è stato Carmelo Imbriani? Nulla. Eppure, erano tutti lì. La cerimonia certo, un momento ufficiale con tanto d'invito, non si poteva mancare. Ovviamente c'erano (per fortuna) anche quelli presenti per reale sentimento, partecipazione affettiva a quello che è stato un momento simbolico. Perché, ipse facto, l'antistadio era già il Carmelo Imbriani nel momento stesso della sua dolorosa scomparsa. Io l'ho sempre pensato e come me tutti coloro che Carmelo, e quel campo, l'hanno conosciuto. Ma va bene così, non voglio certo stupirmi davanti a tutto ciò. Il formalismo impera ed in fondo ieri sera era giusto così, se alla fine è servito per tributare il giusto onore al capitano.

Io sono povero di spirito, banale all'inverosimile, ma non tanto da ipotizzare che davvero il senso della vita possa ricercarsi in un pallone da calcio. Non può ridursi tutto ad una sfera di cuoio, sarebbe la conferma della nostra piccolezza infinitesimale di fronte all'Universo che meravigliosamente ci ospita. Eppure su quel campo, ieri sera, c'era tanto della Vita d'ognuno di noi. Voglio pensare solo a Valeria con le sue lacrime, i suoi pensieri, i passi leggeri dei suoi figli a calpestare lo stesso sintetico che ha raccolto il sudore e la fatica di Carmelo. In qualche modo, la Vita che si perpetua, dando un senso al troppo breve passaggio di Carmelo su questa Terra. Quei piedini di bimbo che hanno teneramente sfiorato il pallone dando inizio all'amichevole, magari saranno gli stessi che, un giorno calpesteranno un campo di calcio, un'altro Imbriani idolo di tanti ragazzi magari al Vigorito. Quindi non mi sono proprio sbagliato, il senso della Vita potrebbe essere anche dentro ad un pallone, chissà. In quel momento c'era qualcosa di importante: quel calcio di bimbo, guidato dalle mani sicure di una mamma, dato ad un pallone troppo grande e duro per lui, potrebbe invece racchiudere un significato molto più profondo. Voglio sperarlo, certo.

Il senso della Vita, le cose essenziali, il mondo che non vediamo perché distratti e sopraffatti dalla quotidianità. Una vita che dovremmo vivere, nonostante le difficoltà che ognuno affronta, e che invece sembra volerci sopraffare. Perché non leviamo lo sgardo da noi stessi, perché guardiamo sempre avanti e mai indetro, a chi è ultimo, ultimo dopo di noi che pensiamo d'essere già gli ultimi... Il nostro stesso egoismo ci soffoca e ci rende schiavi del nulla, di ciò che è assolutamente superfluo. Abbiamo quanto basta eppure siamo infelici, sempre, costantemente alla ricerca di altro, di cosa non è alla nostra portata.

Carmelo Imbriani ha lasciato la sua privatissima eredità morale e spirituale alle persone che amava. Posso solo immaginarlo. Ma anche a noi che lo abbiamo semplicemente conosciuto ha fatto un dono. A me ieri sera mi ha donato un pensiero profondo. Mi ha fatto pensare a quanto io sia fortunato ad avere una mano piccola da stringere, da coccolare, da rassicurare. Mi ha fatto capire quanto la mia mano ruvida sia importante per quella più piccola che la stringe forte, che l'accompagna a scuola, che sale insieme le scale dello stadio. Il tesoro più grande, l'amore che possiamo donare, gratuitamente e illimitatamente a i nostri cari, alle persone che conosciamo. Troppe volte lo dimentichiamo, ci siamo quasi abituati a quanto invece ogni giorno dovremmo rinnovare, ogni momento. Pensando, soprattutto, a chi non può farlo più.

Andando via ho provato una sorta di disagio, mi sono quasi sentito in colpa perché troppe, troppe volte ho dimenticato che oltre le bollette, il mutuo, il lavoro, le tasche vuote, c'è sempre una mano da poter stringere e che vuole essere stretta. Proverò, dovremo tutti provare a ritrovare noi stessi e ad onorare la Vita ed anche il calcio, perché no, soprattutto quello giallorosso. Se riusciremo a dare a tutto questo un senso concreto, quello giusto, sarà stato il modo migliore per ricordere Carmelo Imbriani e tutti coloro che, purtroppo, di mani piccole (o grandi) non possono stringerne più.

Sezione: In primo piano / Data: Ven 20 settembre 2013 alle 12:00
Autore: Marcello Mulè
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