Lo scorso inizio settembre, quando pubblicammo in esclusiva per Voi, sul nostro portale, un capitolo del libro "Ogni santa Domenica" (Edizioni L'Espresso, dicembre 2013, autore il nostro Marcello Mulè), avemmo un lusinghiero riscontro per numero di letture e apprezzamenti e fummo sommersi da mail di complimenti.

Abbiamo così deciso di offrirvi ancora un altro capitolo dello stesso libro. Ancora uno spaccato biografico di vita vissuta in parallelo con la fede giallorossa. Quanto raccontato è riferito chiaramente alla finale playoff  Benevento - Crotone, un ricordo per tutti noi a dir poco scottante. Non "a caso" abbiamo scelto questo capitolo, con la speranza che il "messaggio subliminale" giunga a destinazione...

Buona lettura!

 

Capitolo 9 - Una fede incrollabile

Cammino a testa bassa, fiaccamente, non riesco ad essere più veloce, e pur volendo, mi mancano le forze, è come se sentissi tutto il peso del mondo scaricato sulla mia schiena fin troppo esile.
Ho una voglia incredibile di scappare via, velocemente, ma sento l’asfalto sotto i piedi che sembra colla, mi frena e mi trattiene lì dove sono.
La t-shirt e i soliti scaramantici jeans sono madidi di sudore, ho la bocca completamente asciutta, sembra che la mia lingua si sia incastrata tra i denti, mi sento spossato, svuotato d’ogni briciolo di forza.
Percepisco accanto a me la presenza di tante altre persone; camminiamo tutti allo stesso modo, con quell’innaturale e pesante lentezza, con fatica. Ma poi, loro chi sono? No, non riesco ad alzare la testa e a volgere lo sguardo intorno e forse nemmeno m’interessa. 
Il timore, la preoccupazione d’incontrare altri sguardi è tanta, io vorrei soltanto poter sparire, in un lampo, ma non è possibile. Mi rendo conto di procedere meccanicamente, a memoria, e non ho la minima idea di dove io stia andando, del perché abbia imboccato questa strada piuttosto che un’altra.
Ma non avevo un auto al parcheggio?
La via davanti a me sembra nuova o è quella che ho fatto tante altre volte? Porterà a casa mia?
No, non lo so, e poi a casa io non posso, non voglio tornare, non adesso, non stasera...

Un silenzio irreale, queste nubi scure accentuano il senso d’afa, ma come, non passa neppure una macchina? Mi sento solo, l’unico al mondo eppure cammino insieme a tanti altri. Lo percepisco, questa è la stessa sensazione che provano tutti gli altri accanto a me.
Ho fatto appena trecento, forse quattrocento metri, sento in lontananza l’eco di canti da stadio, c’è qualcuno che festeggia, che urla al cielo la sua incontenibile gioia.
Beati loro, io provo soltanto una grande, profonda amarezza, mi pervade un senso di sconfitta che mi toglie anche il respiro, mi viene da piangere ma non posso, mi vergogno. Ci vergogniamo, siamo in tanti eppure ognuno è visibilmente solo con se stesso.
Tutto intorno a me è fermo, paralizzato da un dolore grande, come  se attraversato da una vampata distruttiva di delusione.
In terra “cocci” d’illusioni, speranze, brandelli di bandiere, striscioni colorati, biglietti strappati, nastri lunghissimi attorcigliati a terra e ovunque, la strada è come un lunghissimo patchwork giallo e rosso.
Ho un momento di lucidità assoluta: ma come, non ero andato ad una festa io? La nostra festa, quella di un’intera comunità, la celebrazione di un sogno realizzato, del raggiungimento di qualcosa che per decenni io, noi, abbiamo inseguito invano! E adesso?
Ho la sciarpa al collo, sdrucita compagna di tanti campionati, nella mia tasca destra la cento lire che conservo da anni, il mio talismano, che mi ha sempre portato fortuna. Stavolta mi ha tradito? No, non può essere.
Vorrei parlare con qualche amico, o almeno provare a fare una telefonata dal cellulare ma non ho voce, non avrei neanche le parole...per dire poi cosa?
Soltanto due ore fa ero circondato da una folla incredibile, calda, festante, colorata, appassionata, migliaia di persone differenti ma con lo stesso unico battito, l’identico sogno che era lì, a portata di mano.
Cammino piano, ho la sensazione di vivere un incubo, una specie d’allucinazione ma molto, troppo realistica, concreta. Non è un’allucinazione purtroppo, ogni istante che passa io me ne rendo conto, sempre di più.
Gocce di sudore mi scendono sulla schiena, sul viso, io solo adesso inizio ad accusare tutta la stanchezza, la tensione che da una settimana ho accumulato.
Ecco, la fatica di quel viaggio verso Sud, la gioia e l’entusiasmo di quel pareggio allo "Scida", la corsa del capitano verso di noi, ad urlare tutta la sua gioia condivisa da quella piccola rappresentanza giallorossa in Calabria.
Una settimana di preparativi camuffati da assoluta tranquillità, il vialetto del mio parco tinto di due colori soltanto, quell’esplosione di sciarpe, bandiere, nastri colorati a unire balconi, palazzi, interi rioni in un unico grande abbraccio, per la gioia sportiva più attesa.
Vorrei poter ritornare indietro, almeno di due ore o premere il tasto reset, ma non c’è.
Con la coda dell’occhio guardo le auto che adesso iniziano a sfilarmi accanto, mi rendo conto di camminare tra i tanti veicoli in sosta e la strada, pericolosamente.
In quelle auto io vedo volti terrei, qualcuno discute animatamente con gli altri passeggeri, tanti i ragazzini, con il viso appoggiato sul vetro, sguardo vuoto e sciarpa ancora al collo, come me. Fa male vederli così, non devo più guardare. Sento l’elicottero azzurro e bianco volteggiare sopra le nostre teste, ma per controllare cosa?
Non serve, la mia gente non ha bisogno di strumenti d’intimidazione o coercitivi. I miei concittadini sono pacifici, lo siamo sempre stati, abbiamo storicamente accettato tutto, con civiltà, con rassegnata dignità.
Un ragazzo mi ferma, stringe la mano alla sua fidanzatina, hanno pianto e si vede, mi urla tutta la sua rabbia, la profonda delusione.
Provo ad ascoltarlo, non so cosa rispondergli. Vorrei potergli dire che anch’io sono arrabbiato, che sto soffrendo, che è solo un incubo, ci sveglieremo, ma so che non posso mentirgli, adesso non più. Ha ragione, fa bene a sfogarsi.
Se ne vanno, hanno capito che anch’io, come loro ci sto male.
Io, in fondo, non ho neppure provato a darmi un contegno, a far finta di nulla. Non è possibile, tutto intorno a me non ha più nulla di giallo e rosso, è tutto maledettamente nero.
Arrivo a casa, non c’è nessuno, non so se per fortuna o salutare tranquillità costruita dai miei cari. Direttamente sotto la doccia, non so quanti minuti sono rimasto lì, cercando di svuotare la mente, provando a ritrovare le forze, uno spunto qualsiasi di logica, lo spiraglio per infilarsi e fuggire da quel corner buio e freddo in cui io sono finito, e con me tantissimi altri cuori... Nulla.

Non so quante ore sono passate, oramai è buio.
Con ritrovata calma, almeno quella, cerco di mettere in ordine i pensieri ma non penso più a ciò che è accaduto qualche ora fa. Volutamente ho chiuso la mente, il mio sforzo psicologico inizia a dare frutti.
E’ tornato anche mio figlio, non dice nulla ma mi ronza intorno, curioso, preoccupato. Io che non scherzo con lui è cosa grave ai suoi occhi.
Ad un tratto, chissà, spinto dalla tenerezza, si avvicina e mi chiede con il candore che solo un bambino può avere:

«Pa’, ma la leviamo domani la bandiera?». Lui, un bambino, aveva capito fin troppo bene cosa mi stesse accadendo.
La bandiera! Ho messo la bandiera sul balcone, tra i gerani e il melograno nano. La bandiera cucita da mia madre, decenni fa, con una pazienza certosina, quattro quadri giallorossi, così come la volevo io. Guardo fuori, è lì, la brezza serale la fa anche sventolare. Ecco, una stilettata dritta al cuore, la sento nitidamente.
La bandiera, il Benevento, un grande amore ma una nuova sconfitta.
E’ la stessa bandiera che sventolava sulla finestra di casa, nel 1976. All’epoca era appesa con le mollette per il bucato, non avevamo lo spazio per un’asta.
Mia madre, allora, la tolse e la lavò per poi conservarla. Tanto lavoro per cucirla, il raso buono comprato in merceria, non voleva certo rovinarla.
Io l’ho sempre conservata gelosamente, quel drappo vuol dire molto di più che la fede calcistica. In quelle cuciture c’è tutto l’amore per uno sport, per una squadra, il legame con tutta la mia storia familiare, parallela a quella degli stregoni.
Guardo quella bandiera e mi "passa davanti" tutto ciò che ho vissuto negli ultimi anni.
Il Benevento nel cuore, che mi ha fatto disperare, gioire, essere fiero, orgoglioso di quella fede, nonostante tutto.
 
Ho vacillato, paurosamente in bilico sui miei sentimenti, la rabbia mi aveva fatto pensare -quasi con convinzione- che basta, non avrei più sofferto per una squadra di calcio, per una stupida partita persa...
Quei due tremendi chilometri che dallo stadio io avevo percorso a piedi fino a casa, li avevo fatti ripetendo quasi a cantilena sempre e solo la stessa parola: ”Basta”!
No, ho mentito a me stesso. Non basta proprio nulla, non sarà una sconfitta a fare crollare la mia fede, a spegnere una passione così grande, voluta, coltivata. Non basta, non basterà mai, finche io avrò la forza e le possibilità, i giallorossi mi avranno sempre accanto, sarò sempre sugli spalti a tifare e ad incitare.
Non m’importa nulla, seria B o D o Terza Categoria poco importa. Ho speso mezza vita dietro alla mia squadra, ne spenderò volentieri l’altra metà. Iddio permettendo, non voglio interferire con il suo progetto, è solo una mia scaramantica proiezione mentale.
Le sconfitte e le delusioni fanno parte del gioco, come le regole bisogna accettarle, per quanto brutte possano apparirci.

«No amore mio, la bandiera non la toglierò domani. Tanto non da fastidio e, in ogni caso, io rimango tifoso, anche domani. Abbiamo perso, il dolore è grande, ma tra qualche settimana noi saremo ancora in quello stadio a tifare, a sperare, a provare a vincere, e sarà sempre così.  Chi leva la bandiera, bimbo mio, dimostra di non avere a cuore quei colori. Quel drappo messo a sventolare per loro è solo folklore, uno stato temporaneo e non dimostra di certo una fede, un amore».

La mia bandiera, invece, non conosce sconfitte. Sventola perché l'amore per la mia squadra è più vivo e più forte di prima. E sarà per sempre così, ogni qualvolta arriverà una caduta... La malasorte se ne faccia una ragione.

(Nella foto: Marcello Mulè e Raffaele Bianchini sorreggono la "storica" bandiera a Lecce, 1999)

Sezione: In primo piano / Data: Mer 26 novembre 2014 alle 17:30
Autore: Redazione TuttoBenevento
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